‘Davanti ai diritti’. kafkiane divagazioni intorno alla “giustizia dei diritti” - Núm. 10, Noviembre 2008 - Ambiente Jurídico - Libros y Revistas - VLEX 216509637

‘Davanti ai diritti’. kafkiane divagazioni intorno alla “giustizia dei diritti”

AutorIlario Belloni
CargoLaureato in Giurisprudenza nel 2002 presso l’Università di Pisa con una tesi sui fondamenti dei diritti umani.
Páginas74-94

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(Recibido: octubre 9 de 2008. Aprobado: octubre 18 de 2008)

Dentro la metafora

Vi è un racconto1 kafkiano dal titolo assai emblematico: Davanti alla legge. E vi è, come è noto, un romanzo di Kafka dal titolo altrettanto emblematico: Il processo. Non è un caso che in alcune pagine del romanzo – più esattamente nel capitolo IX intitolato (anch’esso emblematicamente) Nel duomo – si possa ritrovare, inserito nelle trame di un dialogo e proferito da un sacerdote nelle forme di una parabola, proprio quel racconto, che l’autore aveva scritto già fin dal 1914 (anno in cui comincia a lavorare a Il processo) e che verrà pubblicato cinque anni più tardi dall’editore Wolff nella raccolta di racconti Un medico di campagna3. La circostanza in cui vede la luce il racconto non è da sottovalutare: nel momento in cui si accinge alla composizione del suo romanzo, Kafka ha già in mente e compone da subito questo breve scritto per poi collocarlo successivamente in una parte de Il processo; sembra quasi che Davanti alla legge possa aver costituito per l’autore una linea-guida nella stesura del romanzo, o forse proprio l’idea-madre, quell’intuizione pura da cui tutta l’opera trae origine ed è informata4. Si cercherà anche qui, sulla scia di Kafka, di prendere le mossePage 75proprio da questo racconto per affrontare il nostro tema e costruire anche noi il nostro “processo”: un processo ai diritti, o meglio, ai modi (giudiziari) attraverso cui i diritti vengono garantiti, alla “giustizia” dei diritti, che proprio nel “processo” vede realizzato il suo massimo culmine. Detto in altri (certi) termini, una sorta di meta-processo5.

Nelle pagine del romanzo/racconto, Kafka ci raffigura l’immagine del “guardiano della Legge”. Chi meglio del giudice potrebbe esserlo? Per ciò che riguarda il nostro tema di indagine, il giudice di cui trattiamo è quello immerso nell’esperienza dello stato costituzionale di diritto. Costui è un soggetto che pare aver superato lo steccato positivistico di mero guardiano della legge per assurgere al rango di “guardiano dei diritti” (o, magari, di quella legge che protegga i diritti). Il discorso, tuttavia, potrebbe cambiare ben poco, e ciò non a caso: resta infatti il rischio che anche il “guardiano dei diritti” sia della stessa specie di quello da cui, nel racconto kafkiano, «va un uomo di campagna e chiede di entrare nella Legge»6, ovvero, diremmo noi, di “entrare nei Diritti”7.

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Nel racconto il guardiano dice da subito all’uomo di campagna che «in quel momento non lo può far entrare» e alla domanda di questi circa il fatto di poter entrare in seguito, il guardiano risponde «è possibile, ma ora non puoi»8. Kafka ci dice anche, però, che il portone della Legge (i. e. dei Diritti), come sempre, è aperto e che il guardiano si fa pure da parte per permettere all’uomo di campagna di vedere, piegandosi, «l’interno attraverso l’apertura»9. Questa sembra poter costituire una efficace raffigurazione/trasfigurazione del mondo dei diritti e del relativo accesso. La possibilità di entrarvi è data qui come eventualità, connessa per lo più ad un elemento di carattere temporale, come se la decisione del guardiano di far entrare l’uomo dovesse, per forza di cose, protrarsi nel tempo (che sia questo il segno di una decisione “meditata”, “vagliata”, o di un’attività di interpretazione e comprensione della situazione da parte del guardiano, che con quella risposta sembrerebbe, a buona ragione, sottolineare la mancanza di elementi utili a pronunciarsi da subito sull’ammissione? In realtà si scoprirà non essere così)10.

Inoltre, nelle dinamiche dell’accesso così come descritte nel racconto, sembrano rilevanti anche gli elementi del piegarsi (per vedere) e dello spiraglio (da cui vedere): uno spiraglio che richiama l’immagine delle pieghe della giustizia, tra le quali (e solo tra le quali) può esservi la possibilità che emergano i diritti, che li si riesca a “vedere”, e – da parte del giudice – ad affermare. Se dunque l’autentica “giustizia dei diritti” sembra darsi soltanto nelle trame della legge, tra l’ordito di un sistema giuridico, allora per “vedere” occorre questa azione del piegarsi, che forse può ben racchiudere in sé i diversi momenti sia della rivendicazione che del riconoscimento e dell’attribuzione di un diritto: in detti momenti c’è sempre qualcuno, e qualcosa, che si piega – beninteso,Page 77non solo verso il basso, ma anche verso dietro, tendendosi, come un arco o una leva pronti a scagliarsi/scattare in avanti – e qualcos’altro che viene piegato (a partire dal potere per arrivare fino all’attività interpretativa, che piega la norma o il principio verso il riconoscimento o, a seconda dei casi, disconoscimento di un diritto).

Ma subito dopo aver gettato la prima occhiata al regno dei diritti e, con ogni probabilità, restandone affascinato e catturato – anzi, “attirato” –, l’uomo di campagna viene messo in guardia dal guardiano: «se ti attira tanto allora cerca di entrare, nonostante il mio divieto. Bada però: io sono potente. E non sono che l’ultimo dei guardiani. Ma di salone in salone si trovano guardiani che sono l’uno più potente dell’altro. Già la vista del terzo non la posso tollerare nemmeno io»11. Subito si para davanti all’uomo la scala della giustizia, i diversi gradi del giudizio, i “saloni” che si susseguono; anche il potere dei giudici cresce con il susseguirsi dei saloni, ma già il primo guardiano dice di se stesso di essere potente. Che tipo di potenza è quella dei nostri guardiani/giudici? È solo funzionale a far rispettare il divieto di non entrare, o serve anche a qualcos’altro? L’uomo di campagna, ci fa notare Kafka, «non aveva previsto queste difficoltà; egli ritiene che [i diritti] debbano essere accessibili a tutti e in ogni momento12 ma […] decide che è meglio aspettare fino a che otterrà il permesso di entrare»13.

Sappiamo bene come va questa attesa dell’uomo di campagna, cosa fa questi durante tutto il tempo che non entrerà nei diritti, compresi i suoi tentativi di corrompere il guardiano, la sua speranza di entrare che si fa via via sempre più vana. Quando ormai anche la vista sta per abbandonarlo, riesce tuttavia a distinguere ancora un chiaro bagliore, che quasi lo acceca del tutto: il bagliore erompe dal portone dei diritti, ed è un bagliore “inestinguibile”14. È la luce della giustizia, che si irradia dappertutto e penetra anche dagli spiragli; è la vivida luce dei diritti che mai può spegnersi e che passa sopra le singole esistenze, compresa quella dell’uomo di campagna, che oramai sta per morire ed ha sempre atteso di esserne irradiato, di ritrovarsi dentro a quella luce, di fronte alla sua fonte più pura. Egli vorrebbe restare accecato dallaPage 78luce, ma finisce per esserlo a causa del buio che è sceso lentamente intorno a lui in tutti quegli anni. Perciò quando scorge quel bagliore ha un ultimo sussulto: questa volta però non riesce più a piegarsi, ovvero a tendersi verso il guardiano, «perché non riesce più a sollevare il corpo irrigidito»15. È allora il guardiano che «è costretto a chinarsi sopra di lui, perché la differenza di statura si è di molto modificata a svantaggio dell’uomo»16.

La giustizia, finalmente, sembra piegarsi verso le ragioni dell’uomo, chinarsi su di lui quasi come a comprenderlo, ad abbracciarlo, a racchiuderlo, proteggendolo sotto la sua ala; ma per arrivare a ciò, l’uomo ha dovuto farsi piccolo, abbassarsi di statura rispetto al guardiano (piegarsi su se stesso, o meglio, rannicchiarsi, implodere su di sé): il fatto che la differenza di statura si sia – come scrive Kafka – modificata a svantaggio dell’uomo induce a ritenere che quando, in principio, l’uomo si era presentato davanti alla Legge (i. e. ai Diritti) fosse alto, forse più alto della Legge stessa, ovvero avesse una misura maggiore di quella della Legge o da questa non consentita per accedervi (che fosse, in altri termini, over-size, ovvero che avesse delle pretese sovra-dimensionate).

Ancora una volta, il guardiano non comunica direttamente lui qualcosa ma rimanda sempre a ciò che l’uomo intende chiedere: l’uomo, al suo arrivo davanti alla Legge, ha dovuto chiedere di entrare, ed anche ora, che magari si attenderebbe una parola – spontanea – quanto meno di conforto, è costretto nuovamente a chiedere. È il principio della richiesta di giustizia, della giustizia che non arriva mai da qualche parte, ma che va esatta, chiesta, pretesa e, prima ancora, interrogata, ovvero interpellata. «Adesso che cosa vuoi sapere?», chiede il guardiano, e subito dopo si affretta ad aggiungere un «sei insaziabile»17 che sa tanto della insaziabilità della giustizia, dei diritti, o meglio delle proprie pretese nei confronti dei diritti18. «Tutti aspirano alla Legge [i. e. ai Diritti]», dice l’uomo, ma «com’è che in tutti questi anni nessun altro oltre a me ne ha chiesto l’accesso?»19. A quel punto il guardiano “urla” una risposta, e la urla non soltanto perché l’udito dell’uomo è oramai debole ma, potremmo aggiungere noi, anche per renderla pubblica, dal momento che quella è l’unica risposta garantista che l’uomo riceve finPage 79da quando è lì ad aspettare davanti al portone dei diritti. E non è un caso – anzi, sembra un paradosso! – che quel garantismo arrivi troppo tardi, a conti già fatti, quando forse è impossibile l’esercizio del diritto che si sarebbe in tal modo garantito e del quale il “garante” (i. e. lo stato) fa anche bel vanto urlandolo ai quattro venti, come fa il guardiano quando proferisce: «Qui nessun altro poteva ottenere l’accesso, perché questo ingresso era destinato solo a te. Ora vado a chiuderlo»20.

Per tale via si giunge subito alla conclusione dell’inganno dell’uomo da parte del guardiano, conclusione alla quale perviene immediatamente anche K., il protagonista del romanzo kafkiano, dopo aver ascoltato il racconto da un sacerdote nell’oscurità della navata di un duomo. L’“inganno”, ai nostri...

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